Dosaggio dei cimeli
di Paolo De Simonis
Ripensando oggi la storia dei musei della Resistenza
La Liberazione avvenne il 25 aprile e divenne memoria rappresentata il successivo 7 luglio 1945: quando infatti, mentre ancora si combatte nel Pacifico, si apre a Milano, all’Arengario, la prima Mostra sulla Resistenza . Altre ne seguirono, almeno sette fino alla fine del 1946, in diverse città dell’Italia settentrionale: ancora Milano e quindi Torino, Genova, Alessandria. Documenti e oggetti, assieme a foto e pannelli, ricomponevano in quadri unitari una memoria ancora in formazione e nota solo per frammenti ai suoi stessi protagonisti. Si traduceva così in concretezza espressiva quella forte volontà di costituire un immaginario visivo della Resistenza che si era manifestata già nei mesi immediatamente precedenti la Liberazione. Un’altra importante Mostra della Resistenza italiana venne inoltre esposta a Parigi in occasione della Conferenza della pace (Ecole des Beaux Arts, 14-26 giugno 1946) e riproposta poi a Zurigo, Basilea e Ginevra nonché a Torino, Roma, Napoli. La Resistenza italiana non poteva fare a meno di mostrarsi: i partigiani, amaramente, si scoprirono presto vincitori obbligati a ricercar legittimazione. In ambito internazionale rappresentavano la presentabilità di una nazione screditata. Occorreva, con Franco Antonicelli, “portare alla coscienza del mondo quel che l’Italia ha patito e quel che essa ha fatto”. E in Italia la Resistenza, per guidare la Ricostruzione nazionale, doveva tentare di elaborarsi in memoria unitaria. Contro il suo status, reale e/o percepito, di memoria invece divisa, controversa, negata. Le Mostre riscossero grande successo (circa 50.000 i visitatori di quella del 7 luglio) ma non furono seguite da Musei. Per più ragioni. In Italia, anzitutto, nonostante i tentativi resistenziali in tal senso, non si costituì una "nazionalizzazione della memoria" confrontabile a quella sedimentatasi in altre nazioni europee. All’emarginazione politica dei comunisti e dei socialisti, dalla primavera del 1947, corrispose la marginalizzazione della Resistenza dal discorso pubblico, dove pure si mantenne vitale la postura antifascista. Un esempio di massima pertinenza: l’intento di presentare la Mostra di Parigi anche in Inghilterra e negli Stati Uniti venne vanificato dai funzionari del Ministero degli esteri. La documentazione raccolta dagli uffici studi, unitamente all’impegno al suo incremento, fu così assunta dagli Istituti Storici della Resistenza proposti dai disciolti CLN nel convegno di Genova del dicembre 1946. Nello stesso clima ‘difensivo’ Parri, nel 1949, fondò l‘ Istituto nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia : si voleva impedire che i documenti, metabolizzandosi negli Archivi di Stato, finissero per restare esclusi dalla consultazione. La memoria, in altri termini, fu più protetta negli Archivi degli Istituti che esposta nei Musei: i partigiani si ritenevano peraltro attori del presente e non reduci. La rappresentazione delle vicende resistenziali, per molti anni, ha coinciso con le persone che le avevano vissute. Per uscire dall’isolamento, guadagnando spazio in orizzonti unificanti, la Resistenza si manifestò così, quasi esclusivamente, con il linguaggio del lutto, con il culto e la commemorazione dei caduti: conseguenti, e capillari, cippi, lapidi, targhe, monumenti, sacrari, intitolazioni di piazze e strade. Le donne di Bologna e Modena, spontaneamente, affissero le foto dei loro morti sulla facciata di Palazzo D'Accursio e sulla Ghirlandina, al sacrario di Montelungo dedicato dal Ministero della difesa ai caduti del Corpo italiano di liberazione. Anche l’ autorappresentazione della Resistenza quale ‘quarta guerra di indipendenza’ va interpretata nella stessa logica di ricerca di consenso pubblico. Non casualmente, la sua memoria trovò ospitalità solo in alcuni Musei del Risorgimento: come a Trento, nel 1945. Nuovi specifici allestimenti stentarono a sorgere anche quando, verso la metà dei ’50, presero a sciogliersi i vincoli posti dalla guerra fredda. Più che di musei si trattava tra l’altro di ‘memoriali’: nel 1955 il Museo della liberazione di Roma, in via Tasso; nel 1961 l'istituzione del Museo-monumento al deportato politico e razziale di Carpi (Modena); nel 1965, a Trieste, la Risiera di San Sabba che viene dichiarata monumento nazionale e trasformata in museo-monumento della persecuzione e dello sterminio razziale. Gli stessi spiazzamenti culturali e politici eredi del ’68 introdussero nei ’70 più mutamenti di paradigma che non un deciso incremento del numero dei musei. Microstoria, fonti orali, cultura materiale e popolare, avvento dei governi regionali, affermazioni elettorali delle sinistre: ne sortì, essenzialmente, il diffondersi e il consolidarsi degli Istituti storici, una marcata attenzione alla ricerca e alla didattica, la valorizzazione delle testimonianze individuali. E’ solo con gli ’80 e i ’90, quindi assai tardivamente, che i musei della Resistenza si moltiplicano e assumono nuove fisionomie, per tagli tematici e linguaggi di allestimento. Alla prevalenza del ‘militare’ subentra l’attenzione al ‘quotidiano’. In una grande foto, nel Museo di Montefiorino, una donna sorridente esibisce una larga sfoglia di pasta a fianco di un partigiano armato. Casa Cervi, ripensata in Museo, intreccia l’eccezione della lotta armata con la tradizione dei lavori agricoli. Voci nuove di civili e militanti di base, donne e uomini, costruiscono narrazioni alternative, spesso critiche, che incrinano le retoriche commemorative vigenti fino ad allora. Abbastanza rapidamente i codici di comunicazione adottati all’interno dei musei si aprono alle novità tecnologiche e multimediali. La commemorazione degli episodi viene ambientata anche nei contesti larghi, macroterritoriali, rappresentati da ecomusei, musei diffusi, parchi storici attrezzati: in provincia di Torino l' Ecomuseo della Resistenza nelle vallate alpine, in Emilia-Romagna il Parco storico di Monte Sole, in Calabria il Campo d'internamento per stranieri di Ferramenti. In provincia di Siena Casa Giubileo e Pietraporciana. La memoria della lotta si ancora a luoghi e movimenti: i ricordi dei testimoni si agganciano a spazi di vita improvvisamente travolti da arrivi e fughe, marce forzate e trasferimenti, ricerca di rifugi e ritorni dolenti. Si mette in evidenza come gli spostamenti e gli insediamenti dei partigiani dovettero confrontarsi con i condizionamenti ambientali già affrontati da contadini e pastori: sempre quelli i valichi e i rilievi, i torrenti e i guadi. Tante e diverse, come si vede, le date di nascita dei musei della Resistenza: non meno delle loro localizzazioni, mission, scelte di comunicazione e gestione. In punta di giudizio si potrebbe concludere che il quadro complessivo è segnato da presenze museali alquanto scarse per numero e disomogenee per qualità e dislocazioni: rispetto a un’immaginazione ideale e/o a quanto effettivamente realizzato altrove. In particolare, more solito, in Francia . Ma forse le interpretazioni sono anche in questo caso più feconde delle sentenze: meglio considerare i musei come indicatori e risultati della storia del Paese. Difficile infatti non connettere l’assenza di un Museo nazionale, o di altri di scala regionale, alla mancata e già ricordata “nazionalizzazione della memoria”. Più latamente: i nostri musei sono da rapportarsi alle dimensioni assunte dalla Resistenza nelle diverse aree così come a quanto intervenuto in seguito, lungo mezzo secolo e più, a livelli politici, istituzionali, associativi, individuali. Se dunque prevedibile, inevitabilmente, è la rarefazione del centro-sud si prestano a letture più articolate il ‘primato’, non solo numerico, dell’Emilia-Romagna e la qualità e il nitore strategico del Piemonte. Risiede d’altronde proprio nelle situazioni più avanzate la consapevolezza di quanto, nel settore, resti ancora da ripensare e risolvere. Aver opportunamente messo in crisi la lettura retorico/commemorativa, centrata sull’approccio militarista e mitologicamente unitario della Resistenza, ha prodotto nuovi interrogativi, non solide alternative. Le stesse nuove tecnologie individuano opzioni più ricche almeno quanto complicano un già intricato panorama epistemico dove, inevitabilmente si riverberano note recenti crisi epocali. Geografie politiche sconvolte. Crolli di muri e non buona salute di ideologie e fedi. Accredito problematico di altre voci: nascono musei, non solo virtuali, celebranti la memoria fascista . Fine della storia. Se e come rappresentare/narrare/interpretare la storia contemporanea. L’era del testimone. La liturgia di rito antropologico che sanziona il parlare a nome di altri: quando nei musei, non solo della Resistenza, finiscono per imporsi sui protagonisti degli eventi i (sedicenti ?) professionisti degli allestimenti. La parentela con la museografia antropologica traspare anche a proposito del prevalere delle istanze locali, tra cui frequenti quelle di minima scala e non sempre in grado di adeguarsi agli standard indicati dalle Istituzioni. Ecomusei e altri approcci sistemici nascono strategicamente, in positivo, o piuttosto si rendono necessari ex post per intervenire sui limiti dell’eccesso di spontanea frammentazione e autonomia locale ? L’adozione di masonite e tubi Innocenti, nel ’45 - ’46, ‘significava’ anche matericamente una scelta di rigore, contro la magniloquenza del passato regime. Che valore assegnare, in questo senso, alla progressiva introduzione delle ICT (Information and Comunication Technologies) ? Di fatto i musei vanno passando da santuari della conservazione a spazi scenografici di comunicazione complessa: assolutamente ricentrata sul visitatore e sul suo coinvolgimento. E’ il futuro, oggi, che interessa e preoccupa anche quando si rivolge al passato. Il ritrovamento, nel 2001 a Milano, di 73 degli 80 pannelli originali della Mostra parigina del 1946 ha generato due anni dopo Un'immagine dell'Italia. Mostra di una mostra sulla Resistenza. 1946|2003. Ne è soprattutto emerso come e quanto le scelte concettuali e linguistiche di allora abbiano funzionato da archetipo estenuatosi poi per decenni. Nel 2005 si sono tenuti due importanti Convegni, dei cui atti soprattutto sono debitrici queste note: a Torino e Grenoble I Musei della seconda guerra mondiale nelle Alpi occidentali tra passato e futuro e, a Modena, Luoghi per la memoria, luoghi per la storia . Nel 2006, a Firenze, si è svolta una giornata di riflessione su Resistenza: il futuro della comunicazione tra storia e memoria . Il 26 gennaio di quest’anno si sono aperte le Stanze della memoria, dove la Resistenza è inserita nella ricostruzione complessiva delle vicende politiche di Siena e del suo territorio durante il ‘900. Proprio perché nate da poco, le Stanze non credono di poter da sole impostare adeguatamente il proprio futuro, di ricerca e gestione culturale. E’ importante invece creare occasioni stabili di confronto tra quanti operano nella rappresentazione della storia contemporanea. La Toscana, al momento, è rimasta abbastanza ai margini del relativo dibattito nazionale. E anche al suo interno, tra le pur varie e interessanti realtà, non si sono finora create particolari occasioni di collaborazione e, addirittura, di conoscenza reciproca. Da qui la proposta, per il prossimo 24 novembre, di ospitare nelle Stanze la giornata di studio Rappresentare la storia - Resistenza, emigrazione, storia sociale nel museo e in rete. Una giornata che vorrebbe concludersi come apertura di una serie: da ambientare negli altri musei toscani e da collegare ai coordinamenti nazionali. Uscirne da soli, con don Milani, è comunque egoismo. Insieme è la politica.